La Mia Africa. Destinazione Kenya: Mombasa-Malindi.

L’ora di arrivo a Mombasa è la mezzanotte italiana, vale a dire le 2 di notte locali.

E tutte le precauzioni prese per l’uscita dal velivolo (vale a dire “spogliarsi“), non servono a molto quando ad assalirti è la calda, tropicale, afosa e umida notte africana.

La solita fila per i documenti, i visti e la dogana ci portano sul piazzale esterno. Ad attendere un pulmino che ci porterà alla meta finale.

Il pulmino fantasma.

Perchè nonostante le rassicurazioni del tour operator a cui più e più volte ho sentito dire “una quindicina di minuti e arriva“, dopo un’ora e passa prendiamo un taxi (a nostre spese) e molliamo la loro “perfetta organizzazione“.

La contrattazione per il taxi mi ha vista alle prese con due bei furboni (i primi di una lunga serie, ma contrattare è il mio verbo preferito). Alla prima volevano 130€. Propongo 70€, che ovviamente non gli sta bene. Me ne vado. Dopo cinque minuti esatti mi vengono a cercare chiedendomi se mi stanno bene 75€. “Galli, ci stanno bene 75€?“.

Si va.

Intanto si sono fatte quasi le 4,30 locali…lei regge, fa la stoica, ma, cuore di mamma, è un’inutile tortura…

Alle 6,30, AVETE CAPITO BENE, arriviamo al nostro resort.

2 lunghissime e interminabili ore, su un taxi guidato a folle velocità (dove le buche lo permettevano) attraverso una Mombasa caotica, sempre caotica a qualunque ora, poi piccoli paesini, il nulla, altri paesini, Watamu, infine Malindi. Ad accompagnaci, tra un occhio socchiuso e l’altro, l’alba africana. Prima un tenue rosa, poi l’arancione, infine il rosso. Ed ecco il sole.

La cosa che più mi ha colpito durante questo tragitto? La quantità di gente presente sulle strade ad un’ora così tarda (o così presto, come in questo caso). Il nostro tassista ci dice che ci si mette in cammino presto per andare a lavorare. Alle volte anche lui dorme poco. 3 o 4 ore gli sono sufficienti, o lo devono essere, quando in certi periodi dell’anno ci sono così tanti turisti… E poi, vedere allo spuntare dell’alba, bambini di 5 o 6 anni con le taniche vuote in mano. Vanno a rifornirsi d’acqua. E per farlo devono percorrere fino a 20km al giorno.

I miei “contro“.

Distanza Mombasa-Malindi troppa. Due ore su un pulmino puzzolente e con troppa aria condizionata – verificato al ritorno – (e non venite a dirmi quelle cazzate dell'”odore d’Africa“, per cortesia, il pulmino puzza. E li avete mai annusati i loro scellini? L’odore d’Africa è ben altro…).

La distanza è notevole soprattutto se, come molti voli, arrivano di notte, per cui il tragitto finale ti ammazza troppo. A maggior ragione se a viaggiare con noi c’è la nana…

E poi, diciamola tutta, Malindi non vale lo sforzo… Non tutto questo sforzo, almeno. Meglio fermarsi a Watamu o andare dalla parte opposta, vale a dire Diani.

Se non siete mai andati in Africa e volete fare i pecoroni, andate pure a Malindi. Ma se siete stati, come nel nostro caso, in Tanzania, la differenza colpisce al cuore… Eccome.

Letto IN ANTEPRIMA per voi: “Il Gusto Proibito dello Zenzero” di Jamie Ford…perfetto compagno di viaggio per una vacanza da ricordare.

Oai deki te ureshii desu“. I primi rudimenti di giapponese che Henry apprende dall’amico sassofonista Sheldon per colpire la sua nuova amica Keiko. Un’amica speciale. Speciale come il primo amore. Speciale perché Keiko è giapponese, mentre Henry è cinese. Speciale perché sboccia in un’epoca difficile. Jamie Ford, infatti, riporta in vita una delle pagine più vergognose della storia americana. Siamo ad un anno dall’attacco di Pearl Harbour nella città di Seattle. Al suo interno abitano in quartieri distinti e separati cinesi e giapponesi. Vivono. Non convivono.
I continui flashback tra il 1942 e il 1986 ci mostrano prima la difficile infanzia di Henry, poi il suo andare avanti nella vita adulta.
Prima l’ostinazione dei genitori nel volerlo rendere “normale” inserendolo in una scuola americana, quando la normalità per Henry ha altre sfaccettature. Prima un padre che lo obbliga a parlare in inglese, ad andare in giro con un distintivo che riporta la scritta “io sono cinese”, per distinguersi dai giapponesi con cui non si dovevano avere rapporti perché erano il “nemico“. Una scritta che sarà fonte di guai, ma anche di salvezza per Henry, fino all’incontro che gli cambierà la vita. E le sue visioni.
Poi lo strazio del dolore per la recente perdita della moglie e il rapporto con il figlio Marty tutt’altro che paterno. Distaccato, semplicemente. Poi la ricerca affannosa di qualcosa che lo ricolleghi a quel passato in fondo mai dimenticato. Per mantenere una promessa.
Collante di entrambe le epoche l’hotel Panama, “un luogo sospeso fra due mondi, ai tempi della sua infanzia; un luogo sospeso fra due epoche, ora che lui era un uomo fatto. Un luogo che aveva evitato per anni, adesso però non riusciva a starne lontano“.
Il gusto proibito dello zenzero va letto sorseggiando zenzero giamaicano, ascoltando il buon jazz di Oscar Golden, e di sua figlia Grace. Perché parla di un amore romanticamente sofferto, travagliato, contro le regole, proibito, attraverso il tempo, nonostante le diversità. Valeria Merlini